domenica 30 luglio 2017

Quando perdiamo delle battaglie contro i nemici dell’Evangelo

Abbondano più che mai oggi anche nelle chiese i nemici dell’Evangelo come lo troviamo annunciato e spiegato nel Nuovo Testamento. Se ne riempiono la bocca e dicono di annunciarlo, ma di fatto lo distorcono e lo negano. Dicono magari di “evangelizzare”, ma quello che intendono per “vangelo” o non lo precisano o se sfidati a definirlo, ne risulta qualcosa di ben diverso da quello che troviamo nelle Scritture, una versione spesso riduzionista, riveduta, “aggiornata” o tanto palesemente errata rispetto ai canoni biblici da essere di fatto “un altro vangelo”, un falso. Se li si contesta, poi, direttamente, persino si offendono per avere osato “giudicarli” e rivendicano a viva voce e con ostinazione la legittimità del loro vangelo. Non di rado riescono persino a prevalere su chi li contesta dimostrandosi così inadeguato a rispondere alla loro abilità retorica. Dovremmo insistere per vincere a tutti i costi? No, anche gli apostoli nel Nuovo Testamento hanno perso qualche battaglia contro i loro avversari, e persino il Signore Gesù Cristo non vince sempre. Il seguente articolo illustra come si possa certo perdere qualche battaglia, ma vincere, alla fine la guerra. L’articolo, soprattutto, illustra ciò che ci insegna la prassi dell’apostolo Paolo quando difende l’Evangelo contestando persino l’apostolo Pietro quando aveva sbagliato. Rileva come noi oggi troppo spesso siamo troppo pavidi nella difesa dell’Evangelo biblico.

“Io vi ho nel cuore, voi tutti che, tanto nelle mie catene quanto nella difesa e nella conferma del vangelo, siete partecipi con me della grazia” (Filippesi 1:7).

L’apostolo Paolo aveva perduto alcune delle sue battaglie. Dopo aver predicato l’Evangelo nelle sinagoghe ebraiche ne era stato definitivamente estromesso e perseguitato dalla maggior parte degli israeliti che rifiutavano di riconoscere Gesù di Nazareth come il Messia atteso. Vi contrapponevano molte argomentazioni che ancora sono sostenute oggi a gran forza da molti ebrei. La tradizione ci dice che Paolo muore di morte violenta a Roma insieme ad altri cristiani perseguitati dalle autorità politiche. Gesù stesso lo avevano già tentato di assassinare un sabato in cui, in una sinagoga, i presenti non avevano gradito un suo sermone (Luca 4:28-29). La maggior parte degli ebrei del primo secolo aveva respinto il Cristo; solo un resto lo aveva accolto per la loro salvezza. L’ira di Dio, manifestata attraverso l’incredulo ed inconsapevole generale romano Tito, avrebbe poi distrutto definitivamente il tempio di Gerusalemme, vanto del popolo ebraico. Sarebbe stato solo attraverso la redazione del Nuovo Testamento, ispirato da Dio, e lo stabilirsi di nuove istituzioni (le comunità cristiane) che la fede in Cristo si sarebbe propagata e, sopravvivendo ai tragici avvenimenti dei primi secoli, sarebbe stata trasmessa nel mondo attraverso il tempo, fino ad oggi. Per diffondere la fede cristiana, l’apostolo Paolo non avrebbe usato la forza (come aveva fatto per perseguitare un tempo i cristiani). Avrebbe perduto delle battaglie, ma avrebbe vinto la guerra.

Anche il Riformatore Martin Lutero aveva perduto alcune delle sue battaglie. Lanciando le sue riforme nel 1517, egli sperava di trasformare la chiesa-stato di Roma. Al contrario, la tirannia papale lo fa scomunicare, brucia i suoi libri e fa torturare e assassinare molti dei suoi seguaci. Non vi sarebbe stata alcuna riforma significativa del Cattolicesimo romano. Cinquecento anni più tardi, il Cattolicesimo è più grande, più potente e più eretico che mai. Solo attraverso la pubblicazione di libri, sermoni e trattati, e lo stabilimento di comunità cristiane indipendenti e di scuole, la Riforma ha assicurato la sua sopravvivenza. La maggior parte dei cattolici romani avrebbe respinto il Cristo delle Scritture e solo un resto sarebbe stato salvato. Lutero aveva perduto delle battaglie, ma ha vinto la guerra.

Nel 20° secolo, il professore di teologia presbiteriano G. Gresham Machen, aveva perduto alcune delle sue battaglie. Nel 1923 scrive un libro dimostrando che la Chiesa presbiteriana negli USA stava predicando, di fatto, due messaggi differenti: il Cristianesimo ed il Liberalismo. I suoi sforzi per contrastare le eresie terminano quando Machen ed altri vengono estromessi dalla Chiesa presbiteriana in USA nel 1936. La maggior parte dei presbiteriani avrebbe respinto il Cristo delle Scritture per versioni rivedute e corrette, e solo un resto avrebbe continuato ad essergli fedele secondo i principi stabiliti dalle Confessioni di fede della Riforma. Solo la pubblicazione di più letteratura e lo stabilirsi di comunità cristiane indipendenti e scuole avrebbe assicurato che la fede cristiana biblica non scomparisse del tutto dagli USA. Machen aveva perduto delle battaglie, ma Cristo ha vinto la guerra.

Nel 21° secolo alcune istituzioni risultanti dagli sforzi del Machen sono state sovvertite da forze che sono riuscite a deviarle su altre strade, così come pure è successo in diverse “chiese storiche” della Riforma. Si rivela così spesso inevitabile e necessario formare nuove comunità e scuole e pubblicare e diffondere maggiore letteratura per assicurare la preservazione della fede biblica secondo i principi della Riforma. Molti continueranno a scivolare sulla china della corruzione morale e dottrinale e si perderanno con il mondo con il quale sono così inclini ad allearsi; diverse battaglie a difesa della verità verranno perdute e solo un resto continuerà ad esserle fedele, ma non dobbiamo dubitare, la storia lo conferma, che la guerra sarà vinta.

Perché i nemici della verità vincono delle battaglie

Perché coloro che abbiamo chiamato gli sviati, ma che sono di fatto eretici nel senso proprio del termine, vincono delle battaglie? Per diversi motivi.

In primo luogo, la Scrittura ci dice che essi sono più astuti, scaltri, e furbi che i credenti: “...poiché i figli di questo mondo, nelle relazioni con quelli della loro generazione, sono più avveduti dei figli della luce” (Luca 16:8). Hanno un modo di pensare che li rende più politicamente astuti, più scafati. Sanno usare bene i metodi del mondo per manipolare, distorcere, avere la meglio sull’avversario e raggiungere i loro obiettivi. Sono più immaginifici nelle loro macchinazioni, meglio disposti ad agire in maniera immorale. Per loro non c’è problema a rubare, mentire e corrompere: il fine, per loro, giustifica i mezzi.

In secondo luogo, gli eretici introducono idee false in maniera furtiva, di nascosto. L’apostolo scrive: “proprio a causa di intrusi, falsi fratelli, infiltratisi di nascosto tra di noi per spiare la libertà che abbiamo in Cristo Gesù, con l'intenzione di renderci schiavi” (Galati 2:4); “...si sono infiltrati fra di voi certi uomini (per i quali già da tempo è scritta questa condanna); empi che volgono in dissolutezza la grazia del nostro Dio e negano il nostro unico Padrone e Signore Gesù Cristo” (Giuda 4). Sembrano delle pecore, ma non lo sono. Le idee che insegnano sembrano essere vere, ma non lo sono. Con le loro parole melliflue ingannano molti e li inducono a credere che loro siano dei fratelli e che le idee che promuovono siano bibliche.

In terzo luogo, gli eretici frequentemente fanno uso della forza (di diverso tipo) per contrastare e liberarsi dei loro avversari. La forza funziona perché fa tacere l’opposizione. Ecco perché gli sviati ed i tiranni ne fanno uso. Il sangue dei martiri non è il seme della chiesa: solo l’Evangelo lo è.

In quarto luogo, e forse il punto più importante, coloro che credono alla verità tendono ad essere lenti a riconoscere l’errore e persino più lenti a prendere le misure necessarie per difendere la verità. Essi sono carenti sia di discernimento che di coraggio. Questo è un aspetto cruciale. I cristiani non possono farci nulla che i figli di questo mondo siano più astuti di loro, o che i falsi fratelli operino in maniera sottile, surrettizia, e coercitiva. I cristiani, però, possono fare molto nel capire e rispondere alla sovversione dottrinale ed ecclesiastica. La loro mancanza di discernimento sorge dalla loro carente conoscenza delle Scritture, e la loro mancanza di coraggio sorge da una carenza di fede nelle promesse delle Scritture.

Paolo, il nostro modello

Possiamo imparare moltissimo dall’esempio dell’apostolo Paolo ad Antiochia e dalla sua lettera ai Galati, perché lui non era lento a riconoscere l’errore né timido nel correggerlo. La nostra incapacità ad imparare da Paolo e ad imitarlo è la ragione principale per la quale gli sviati vincono battaglie.

Paolo riconosce subito l’errore dottrinale ed agisce rapidamente per correggerlo. Scrive: “Vi salii in seguito a una rivelazione, ed esposi loro il vangelo che annuncio tra gli stranieri; ma lo esposi privatamente a quelli che sono i più stimati, per il timore di correre o di aver corso invano. Ma neppure Tito, che era con me, ed era greco, fu costretto a farsi circoncidere. Anzi, proprio a causa di intrusi, falsi fratelli, infiltratisi di nascosto tra di noi per spiare la libertà che abbiamo in Cristo Gesù, con l'intenzione di renderci schiavi, noi non abbiamo ceduto alle imposizioni di costoro neppure per un momento, affinché la verità del vangelo rimanesse salda tra di voi” (Galati 2:2-5). Paolo non tollera e non si sottomette all’errore neppure per un momento. Comprende ciò che è errore e rifiuta di tollerare coloro che nelle chiese lo insegnavano o n’erano complici.

Paolo spiega, inoltre, come i cristiani debbano rispondere a coloro che oscurano l’Evangelo: “Ma quelli che godono di particolare stima (quello che possono essere stati, a me non importa; Dio non ha riguardi personali), quelli, dico, che godono di maggiore stima non m'imposero nulla” (Galati 2:6). Paolo non si lascia impressionare da coloro che sembrano avere più potere o popolarità o persino più istruzione nelle chiese. La posizione in una chiesa e le credenziali accademiche non danno, però, alcuna immunità. Di fatto, la regola biblica è l’opposta: maggiore è la posizione che si occupa nella chiesa, maggiore è la responsabilità. Ecco perché Paolo dice a Timoteo “Quelli che peccano, riprendili in presenza di tutti, perché anche gli altri abbiano timore” (1 Timoteo 5:20).

Fino a questo punto, allora, abbiamo imparato tre cose sul come dobbiamo opporci a coloro che oscurano o sovvertono l’Evangelo:

  1. Dobbiamo riconoscere l’errore dottrinale come un peccato serio.
  2. Non dobbiamo tollerare l’errore nella dottrina della salvezza o coloro che lo insegnano, neppure per un momento.
  3. Non dobbiamo lasciarci intimidire dalla reputazione o credenziali di coloro che nella dottrina della salvezza insegnano degli errori,
Paolo, però, ha da insegnarci di più ancora sul correggere gli errori dottrinali nelle chiese. Egli continua: “Ma quando Cefa venne ad Antiochia, gli resistei in faccia perché era da condannare. “Ma quando Cefa venne ad Antiochia, gli resistei in faccia perché era da condannare” (Galati 2:11). Questa è la quarta lezione di Paolo: non solo che coloro che insegnano un falso evangelo debbono essere sottoposti ad anatema (vedi Galati 1), ma i cristiani devono pure opporsi e correggere quei fratelli che tollerano coloro che predicano un falso vangelo oscurando o compromettendo la dottrina della giustificazione per sola fede. Pietro non aveva predicato un falso vangelo ma con il suo comportamento si era dimostrato complice di quelli che lo facevano.

In Galati 1 Paolo aveva di fatto maledetto coloro che predicano un falso vangelo. Nel capitolo 2 egli fornisce delle istruzioni su come trattare con fratelli che tollerano coloro che insegnano un falso vangelo, oscurando, così, o compromettendo la dottrina della giustificazione per sola fede. L’apostolo Pietro non aveva predicato un falso vangelo, ma con le sue azioni si era dimostrato complice di coloro che lo facevano. Paolo spiega: “Infatti, prima che fossero venuti alcuni da parte di Giacomo, egli mangiava con persone non giudaiche; ma quando quelli furono arrivati, cominciò a ritirarsi e a separarsi per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei si misero a simulare con lui; a tal punto che perfino Barnaba fu trascinato dalla loro ipocrisia” (12-13). Descrivendo le azioni di Pietro e di Barnaba come “ipocrisia”, Paolo indica come Pietro e Barnaba credessero all’Evangelo, ciononostante essi tolleravano coloro che non lo facevano. La tolleranza dell’errore nella dottrina della salvezza è un peccato. È doppiamente peccato per responsabili di chiesa a cui è stata affidata la responsabilità di insegnare, di nutrire le pecore, di proteggere il gregge.

Paolo, inoltre, si oppone a Pietro “in faccia”, in modo diretto ed aperto. Paolo era amico di Pietro e compagno nell’apostolato. Paolo va alla radice del problema ed affronta Pietro direttamente. La lealtà personale di Paolo verso Pietro non viene per questo messa in questione. Paolo non permette che una nozione falsa di amicizia interferisca con la sua responsabilità di correggere Pietro e difendere l’Evangelo. Paolo non riprende Pietro privatamente suggerendogli cortesemente che egli mangi con pagani. Paolo si oppone a Pietro direttamente, “di faccia”. Opporsi all’errore e coloro che lo tollerano è qualcosa che molti cristiani odiano fare. Piuttosto, si limiterebbero a lamentarsi (“Proprio non riusciamo ad intenderci”). Coloro che permettono ad una concezione non biblica di amicizia di oscurare il loro giudizio, si sono scordati della domanda posta da Paolo: “Sono dunque diventato vostro nemico dicendovi la verità?” (Galați 4:16).

Inoltre, nel modo in cui Paolo affronta Pietro vediamo l’importante principio che la verità, le dottrine bibliche, devo essere difese apertamente, direttamente e chiaramente. Cercare di difendere la verità di soppiatto, con l’astuzia, con mezzi politici, significa pregiudicare le cose stesse che difendiamo. La falsità può essere, e lo è di solito, propagata da mezzi disonesti, non sinceri, ed irrazionali, ma la verità no. La verità deve essere proclamata apertamente, onestamente, razionalmente e sinceramente.

Paolo dice di essersi opposto a Pietro perché Pietro era da condannare. Questa è la quinta lezione di Paolo per noi. Paolo addebita una colpa e la assegna correttamente. Paolo identifica l’apostolo Pietro come reprensibile. Il ruolo di Pietro come apostolo non lo protegge dall’essere ammonito dall’aperta opposizione di Paolo. Paolo giudica Pietro in modo accurato, apertamente e chiaramente. Paolo non travisa le parole di Cristo: “Non giudicate affinché non siate giudicati”, come fanno molti cristiani professanti. Paolo giudica Pietro, accuratamente e velocemente; ed egli agisce sulla base del suo giudizio. Il suo giudizio, naturalmente, non è su una questione banale, ma riguarda l’Evangelo, e Pietro lo stava oscurando. Lo stesso zelo per l’Evangelo che Paolo manifesta in Galati 1, che lo spinge a maledire coloro che nelle chiese annunciano un messaggio diverso, lo spinge pure a giudicare ed ammonire Pietro per non essere abbastanza chiaro sulla verità dell’Evangelo nel capitolo 2.

Paolo, però, non esaurisce neppure a questo punto di insegnarci come trattare con coloro che, nella chiesa, pregiudicano l’Evangelo. Egli dice: “Ma quando vidi che non camminavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti…” (14). Qui Paolo ci insegna che coloro che “non camminano diritto”, “non procedono con dirittura” (Riveduta), che non insegnano esplicitamente ciò che riguarda l’Evangelo, devono essere ammoniti pubblicamente davanti a tutti. Essi non devono essere presi da parte privatamente; essi non devono essere trattati secondo le regole di Matteo 18, perché Paolo comprendeva, come molti nelle chiese oggi non comprendono, che quella procedura è irrilevante in situazioni in cui l’Evangelo è pubblicamente pervertito, distorto ed oscurato. Insegnanti che nella dottrina della salvezza sono in errore, non devono essere ignorati, condonati o trattati privatamente.
Inoltre, Paolo rimprovera pubblicamente l’apostolo Pietro, non i suoi collaboratori minori che lo attorniano. Facendo di Pietro un esempio, registrando questo caso nelle Scritture per sempre, rivolgendosi ad un apostolo e non ad un qualche anziano, diacono o membro di chiesa ordinario, Paolo rende perfettamente chiaro che anche gli ufficiali più alti nella chiesa sono sottoposti all’Evangelo. Se lo è lui, a maggior ragione tutti gli altri. Rivolgendosi a Pietro, Paolo agisce sulla base del principio che più alto è l’ufficio, più alta è la responsabilità (oggi, si direbbe, più grande è la lor immunità...). Se Paolo dovesse ammonire oggi Pietro in quel modo, sarebbe accusato, naturalmente, di fare attacchi personali, mentre si dovrebbe, a dire dei “moderni”, attaccare il peccato e non il peccatore… Se Paolo facesse oggi lo stesso sarebbe accusato di linguaggio inappropriato, di disturbo dell’unità della chiesa, di cattiva testimonianza, e chissà di che altro, e verrebbe lui, Paolo, severamente ripreso, magari da qualche organismo ufficiale delle chiese. Tali critici, non adusi ad un pensiero rigoroso, non riescono a differenziare fra attacco personale e ammonire persone specifiche di oscurare l’Evangelo. L’interesse di Paolo è del tutto dottrinale, e non manifesta alcuna animosità verso Pietro. È la sua preoccupazione dottrinale, la sua posizione come cristiano e come apostolo che gli aveva imposto di affrontare pubblicamente Pietro. Dov’è Paolo quando ne abbiamo oggi più bisogno? Sfortunatamente, queste lezioni paoline sono vengono perdute per strada oggi dalla maggior parte dei cristiani.

Adattamento della prima parte dell’articolo: “Why Heretics Win Battles” di John W. Robbins, in The Trinity Foundation, 2005, in: http://www.trinityfoundation.org/journal.php?id=207

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